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Fortapàsc

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Non è un film ma una storia è vera, talmente vera da essere passata per molto tempo in un cono d’ombra che rischiava fosse dimenticata. Come spesso capita ai casi di cronaca più scomodi, brutali, omettibili con il favore del grande pubblico. Il 26enne Giancarlo Siani è stato ucciso con dieci colpi di pistola il 23 settembre del 1985. Era un giornalista come non ce ne sono più e la camorra ha pensato bene di farlo tacere quando ancora non aveva fatto troppi danni. O quasi. Dopo aver a lungo lavorato nella piccola redazione di Torre Annunziata come “abusivo, precario e a rischio”, Siani era stato finalmente promosso alla gloriosa sede partenopea del Mattino. Le sue inchieste scomode, i suoi aggettivi senza mezze misure lo hanno inseguito fino alla scrivania di quello che doveva essere una carriera determinata e fuori dal coro. Dieci colpi lo colpiscono mentre è ancora in macchina. Del resto i proiettili piovono come caramelle, se è vero che dopo una sparatoria in pieno centro cittadino vengono ritrovati 243 bossoli. “Che razza di paese è che arriviamo sempre dopo?” si chiede lo sconsolato il capitano Sensales interpretato da Daniele Pecci. Dai consigli comunali alle stalle, il film mostra come la camorra sia ovunque e avviluppa la società torrese. Il voto si scambio, le tangenti, Siani sa di aver scoperchiato qualcosa di più grande di lui ma non si ferma. “Dobbiamo tenere pulito” è invece il motto dei boss. Le ville si costruiscono in riva al mare per la splendida vista e per l’eventuale e non troppo remota possibilità di gettare a mare le pistole nel caso ci sia una retata della polizia durante un battesimo. A Torre Annunziata è così che funziona: ci sono i capetti spudorati e la gente tace o segue. “E’ come Fort Apache”, scrive Siani. Il lavoro fatto dagli sceneggiatori è impeccabile. Così come l’interpretazione di Libero De Rienzo, attore in piena sintonia con il protagonista. Si vada oltre le polemiche, una volta di più inutili. Stabilire se la pellicola di Marco Risi sia antecedente o successiva a Gomorra di Matteo Garrone nulla toglie e niente aggiunge a nessuna delle due. Il film andrebbe fatto vedere nelle scuole di giornalismo (che banalità) e anche in tutti i licei della Penisola. Non dipinge il protagonista come un eroe, ma come un ragazzo che ama fare il suo lavoro, una caratteristica tanto rara quanto ammirevole. Magari a qualcuno verrà voglia di seguire le avventure del caparbio giornalista, resterà affascinato dal ticchettio della macchina per scrivere e dalle stanze afose della redazione. Sappia che il mestiere non è più quello di vent’anni fa.